DAL MIO LIBRO “PERDA IL MIGLIORE” IL CAPITOLO DEDICATO ALLA VITTORIA DELL’URUGUAY NEL 1950 E AL SUO CAPITANO OBDULIO VARELA.
DI FRANCO ROSSI.
“Non riesco a capire perchè voi italiani avete mitizzato Schiaffino…In quella squadra i veri autentici fenomeni erano altri”.
E’ la sera del 14 marzo del 1981 e chi parla è Gaston Roque Maspoli, tranquillamente secduto al bar del Leonardo da Vinci a Rozzano vicino Milano.
E’ il cittì dell’Uruguay e ventun anni prima era il portiere di quella squadra che fece piombare nel lutto un’intera nazione, il Brasile. Ha la faccia rotonda, tranquilla e distesa, i capelli bianchi. Corposa la simpatia, nitidi i ricordi. “Juan Alberto era un freddo, uno che non aveva particolare grinta. Grande, grandissimo giocatore, ma quel sedici luglio del 1950 per battere quel Brasile, forse la più grande squadra di ogni epoca, la bravura tecnica da sola non sarebbe bastata. Serviva anche il talento, ma c’era bisogno di grinta, di grinta e ancora di grinta. I veri eroi eroi di quella storica gara sono stati altri…”
Maspoli riprende fiato, si versa acqua minerale in un bicchiere, la sorseggia come fosse cognac d’annata, con religiosa lentezza e gesti misurati.
Quando riprende a parlare la voce cambia tono: è quasi tremula, intrisa di nostalgia e commozione. “Noi avevamo vinto ancor prima di scendere in campo, quando l’arbitro tirò in alto la monetina per far decidere chi doveva dare il calcio d’inizio, Varela la prese con una mano e, davanti agli sbigottiti brasiliani la riconsegnò all’inglese Reader. Noi saremo campioni del mondo, disse il nostro capitano, ai brasiliani gli dia la consolazione di battere il calcio d’inizio o di scegliere in quale metà campo giocare il primo tempo…Varela…Ah, Obdulio, lui era la nostra anima. Ricordo che nell’intervallo, sullo zero a zero, appiccicò proprio Schiaffino contro il muro degli spogliatoi e gli rifilò un ceffone: il calcio è per uomini, non continuare a far la signorina…”
Obdulio Varela, il vero autentico Mito per gli uruguayani.
L’ho conosciuto qualche anno più tardi a Montevideo, quasi ridotto in miseria, posteggiatore abusivo in uno spiazzo vicino allo stadio del Centenario. Distrutto dall’alcol e dalla miseria, ridotto a un rottame. Quasi uno zombie, privo di reattività, lui che era stato l’incarnazione della voglia di vincere, di superare ogni avversità.
“La partita con il Brasile? Mi chiedono di parlarne dieci volte al giorno, ormai quasi è sparita dalla memoria…Mi offriresti una birra?” chiede speranzoso.
Anche due, rispondo con gli occhi pieni di lacrime. Penso, chissà perchè, a mio padre e le mani, quando tiro fuori i soldi dal portafogli, mi prendono a tremare.
Poi la voce di Varela mi riporta alla realtà. “Sai, i brasiliani avevano paura di noi. Dopo un minuto Zizinho superò in dribbling Gambetta e andò sul fondo a crossare. Andai dal mio compagno mostrandogli i pugni. Poco più tardi lo stesso Zizinho tentò di fare il bis. Gambetta fece un’entrata da matto e il povero brasiliano finì diversi metri oltre la linea del fallo laterale ricadendo a terra con un pacco flaccido. L’arbitro fischiò il fallo e Gambetta andò verso Zizinho per aiutarlo a rimettersi in piedi. Con i gesti sembrava chiedergli scusa. Con la voce gli sussurrò all’orecchio: la prossima vez te mato…E il brasiliano da quel momento ha cominciato a liberarsi subito della palla per evitare ogni contatto. Era pauroso. Uno così non poteva diventare campione del mondo. No che non poteva…”
Gli occhi di Obdulio riacquistano luminosità, pieni d’orgoglio di rituffano nei ricordi di quell’indimenticabile pomeriggio.
“Negli spogliatoi, prima di entrare in campo l’allenatore Lopez dopo aver spiegato come avremmo dovuto affrontare i brasiliani sul piano tattico: contenerli a centrocampo, palleggiare per procurarci gli spazi e poi partire in contropiede con Miguez, Schiaffino e il velocissimo Ghiggia, dopo aver spiegato tutto questo sul muro con un gessetto, mi lasciò la parola. Dissi soltanto che non potevamo perdere con gente che giocava solo con i piedi, senza cuore e senza cervello. Loro vincerebbero sicuramente se la partita si giocasse sulla spiaggia di Copacabana. Sanno tutto del pallone, noi sappiamo tutto del calcio. Diamogli una lezione. Chi si tira indietro lo meno…”
E’ vero che nell’intervallo mise le mani addosso a Schiaffino? Obdulio Varela si impettisce, si guarda attorno, beve un sorso di birra e mi mostra le mani. “Non ricordo se le ho usate per picchiare Juan Alberto, non ricordo”.
Fa una pausa, forse per farmi capire che sta mentendo, che non può sputtanare uno che l’ha aiutato a diventare campione del mondo, poi riprende: “Se fosse stato necessario per vincere una partita, in campo avrei picchiato anche mia madre. Poi dopo le avrei chiesto perdono in ginocchio piangendo, ma quando c’è da vincere esiste solo un obbiettivo: fare qualcosa più di tutto, qualsiasi cosa per superare l’avversario. E noi al Maracanà facemmo tutto, qualcosa più di tutto e di più ancora”.
E quando i brasiliano andarono in vantaggio non s’insinuò il dubbio che non avreste potuto farcela? “Ma stai scherzando? Sapevamo che quel gol avrebbe moltiplicato la loro presunzione, la loro stupidaggine calcistica. Al Brasile bastava pareggiare e dopo il gol di Friaca si buttarono tutti nella nostra metà campo. Il Maracanà, con oltre duecentomila persone impazzite di gioia, rappresentò il nostro doping. Difendevamo ogni centimetro della nostra metà campo con il cuore, con i denti, con il sangue. Quando Schiaffino pareggiò sapevamo che loro non si sarebbero fermati, anzi…E così accadde. Sembravano invasati, Ademir strepitava ai compagni che gli passassero il pallone, Chico si intestardiva in dribbling provocatori…” E’ vero che a un certo punto Schiaffino prese la palla, la fermò sotto il destro e aspettò Jair dicendogli: “Leccami la palla, negro di merda…”.
Il brasiliano chiese aiuto ai compagni e ne venne fuori una rissa gigante. E’ vero? “Se l’ha fatto veramente la stima che ho di Schiaffino aumenta a dismisura. Si, ad un certo punto i brasiliani sembravano tutti invasati. Persero la testa, smarrirono ogni elementare prudenza e fu sin troppo facile segnare il secondo gol, ancora in contropiede. Con Ghiggia a dieci minuti i poco più dalla fine”.
E poi cosa accadde? “Mi ricordo due cose, i lacci delle mie scarpe e il brindisi di Gambetta con lo champagne dentro la Coppa. I lacci delle scarpe perchè per almeno cinque minuti, cinque minuti che non sono mai passati, ho chinato la testa guardandomi e piedi e rivedendo, all’infinito, gli episodi di quei novanta minuti. Ero campione del mondo, sapevo da giorni che lo sarei diventato, eppure rimasi sorpreso egualmente”
Il vecchio Obdulio è commosso e l’espressione diventa dolorosa, come l’ultima frase. “Sarebbe bello che i sogni non si avverassero mai. Si continuerebbe a sognare all’infinito…Così invece…”
Diventa muto all’improvviso, mi dà una fugace stretta di mano, forte, forte, forte quasi a stritolare la mia, mi gira le spalle e si allontana tristemente senza voltarsi indietro.
L’andatura ingobbita e l’impossibilità di sognare ancora perchè il sogno non esiste più.
Franco Rossi
(fonte www.francorossi.com)
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